Vite infangate. Fotografie dell'Emilia-Romagna a pochi giorni dall'alluvione | Piazza Grande
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Alluvione

14 Giu Vite infangate. Fotografie dell’Emilia-Romagna a pochi giorni dall’alluvione

di Camilla Consonni

Imola è come un’isola. Il tempo sembra passare più lentamente mentre, attorno, l’acqua scorre implacabile. Qui tutto sembra quasi normale: i bambini in gelateria, la fila alle Poste, il solito signore che, in bici, va a fare la spesa. L’aria che respiro, però, è strana, pesante. Il rumore delle sirene e degli elicotteri rinnova continuamente la consapevolezza che, a soli due chilometri dal centro, c’è chi ha visto la propria vita spazzata via dall’acqua del fiume. La giornata di ognuno procede in modo viscoso, lento, quasi cauto. La parola chiave è “fortuna”, sussurrata in segno di scaramanzia forse, ma soprattutto di rispetto. E la fortuna, in questi giorni, si misura in metri: in alcuni casi, a fare la differenza tra la salvezza e il disastro, sono stati pochi passi in più di distanza dal fiume. Dalle vie che in questi stessi giorni avrebbero dovuto accogliere più di 160000 persone in occasione del Gran Premio di Formula 1 partono gli aiuti per tutti i paesi circostanti: Castel Bolognese, Conselice, Lugo… Da tutti i paesi circostanti, in queste vie si riversano coloro che, complice una macchina particolarmente alta o una profonda conoscenza delle strade secondarie, giungono in cerca di generatori, stivali, badili.

Il viso che vedo arriva da Conselice, da una casa la cui fortuna è stata quella di, inspiegabilmente, vedere l’acqua fermarsi a pochi metri dall’uscio. Le labbra tremolanti mi rivolgono un sorriso nervoso: il fiume non è arrivato in casa, ma nella loro vita ci è entrato di forza. Quello sguardo stanco prende ciò che trova, per sé e per i propri vicini che da quasi una settimana non hanno acqua corrente, né elettricità: caricatori portatili, bottigliette d’acqua, salviette umidificate. Parole di conforto. Nelle campagne, racconta, hanno trovato un rifugio: una casa di quasi duecento anni, sopravvissuta prima alla guerra e ora all’alluvione, dove lavarsi e caricare i cellulari. Anche le linee telefoniche sono interrotte da giorni: da tutta Italia parenti lontani rovesciano la propria preoccupazione su Facebook, nei gruppi dei comuni più colpiti. Stamattina si cercavano informazioni su una signora di 85 anni che, sola, abita vicino alla stazione: dalla Lombardia, un’amica di infanzia tentava di contattarla da giorni. Nessuna risposta, nella sua via quasi un metro di acqua. Il post di una vicina ha permesso di accertarne le condizioni: l’aveva vista, ma soprattutto sentita mentre veniva evacuata dai mezzi anfibi della Protezione Civile. Gridava, chiedendo aiuto.

La bolla di tranquilla circospezione che aleggia in un’Imola straziata, ma nell’occhio del ciclone è insostenibile. Mi dicono che sembra di essere tornati ai tempi del Covid, del primo lockdown: la stessa sensazione di attesa nervosa, di consapevolezza impotente, di paura che da un momento all’altro potremmo “ammalarci” anche noi. Per molti, questi sentimenti sono insostenibili e nell’intolleranza mette radici, finalmente, la solidarietà: c’è chi recupera provviste, chi organizza punti di raccolta, chi si attiva per rintracciare le persone disperse. E poi, chi può, prende pale, scope e stivali e va a spalare il fango. Non serve andare troppo lontano: nemmeno dieci minuti di macchina su una via Emilia che alterna la desolazione più totale al traffico più intenso e sono a Castel Bolognese.

Ci si aspetterebbe un paese fantasma, senza vita, ma non è così: per strada ci sono decine di persone, dai più piccoli ai più anziani. Tantissimi ragazzi. Una comunità che corre, che ronza per le strade facendosi venire le vesciche sulle mani in una vera e propria corsa contro il tempo, o meglio, contro il sole. Le piogge, che hanno causato l’alluvione, sono anche l’elemento che sta concedendo al paese il tempo di rinascere: se questo fango denso e argilloso dovesse asciugarsi, sarebbe impossibile ripulire le vie dove ci troviamo. A volte la leggera pioggia che cade non è comunque abbastanza: per sciogliere il fango e incanalarlo nei tombini dobbiamo usare l’acqua che un’idrovora sta aspirando dai garage delle case circostanti. Mentre spingo via la melma, le scene che sfiorano i miei occhi si fanno strada nella memoria, da cui non usciranno mai: poco più lontano, dei ragazzini giocano a calcio, ridendo quando la palla, caduta nella fanghiglia, finisce per sporcare uno di loro. Di fianco a me, due uomini stanno spostando le macchine parcheggiate, ormai inutilizzabili: le portano a braccia fino in fondo alla via, dove prima o poi arriverà il carro attrezzi. Mi affaccio all’entrata del garage che già da due ore stanno svuotando dell’acqua: ce n’è ancora un metro e mezzo. Tornando al lavoro, incrocio un signore anziano completamente ricoperto di questo limo chiaro. Mi sorride e mi mostra, fiero, il proprio bottino: da casa sua ha recuperato solamente una statuina della Sacra Famiglia, che ora stringe al petto. Non ci sono lacrime, qui, o perlomeno io non ne vedo. Riusciamo a ripulire quasi tutta la via: una quarantina di braccia, in circa quattro ore, hanno liberato cinquanta metri di strada. Nella via accanto hanno appena trovato un uccellino intrappolato nel liquido argilloso. Una signora anziana lo mostra al nipotino con cui fino a poco prima stava spazzando la fanghiglia davanti alla porta. Insieme, lo ripuliscono e il bimbo ride quando quello, contrariato, tenta di volare via. Lo avvolgono in uno straccio e lo portano in casa con l’obiettivo di metterlo al caldo. Tutto attorno a me, in cumuli pericolanti, i ricordi di intere famiglie: vite accatastate, ricoperte di fango.

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